“Dovremmo rispettare le differenze, evitare di intrometterci negli affari interni degli altri paesi e risolvere i disaccordi attraverso la consultazione e il dialogo. La storia e la realtà hanno chiarito più volte che l’approccio fuorviante dell’antagonismo e del confronto – sia sotto forma di guerra fredda, guerra calda, guerra commerciale o guerra tecnologica – finirà per danneggiare gli interessi di tutti i paesi e minare il benessere di tutti”.
– Xi Jinping
Nel momento della verità, il leader della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha mostrato il suo vero volto. Al World Economic Forum di Davos, tenutosi quest’anno in formato virtuale, ha fatto una plateale minaccia al mondo, agitando lo spettro di una “nuova guerra fredda”. Scandendo bene le parole e ostentando irritazione, Xi ha dichiarando: “Costruire piccole cricche o iniziare una nuova guerra fredda, respingere, minacciare o intimidire gli altri… spingerà il mondo nella divisione”. Poi, in piena deriva Vestfaliana ha alluso all’importanza per il Partito Comunista Cinese del principio di non ingerenza negli affari interni della Cina.
Il discorso di Xi ha due destinatari diretti: Usa e Uk.
Il Presidente Joe Biden appena insediatosi alla Casa Bianca aveva confermato una scomoda deliberazione di Donald Trump. Il Potus 45 aveva riconosciuto il genocidio della minoranza musulmana degli Uyguri da parte della Cina. Poi, nel fine settimana, il Dipartimento di Stato aveva rilasciato una dichiarazione in difesa della sicurezza di Taiwan, in risposta alla violazione dello spazio aereo dell’isola di Formosa da parte di jet dell’aviazione cinese.
Il Foreign Secretary Dominic Raab, dal canto suo, aveva annunciato sanzioni contro Pechino per le violazioni dei diritti umani degli Uyguri e offerto rifugio ai 3 milioni di cittadini di Hong Kong minacciati dalla legge sulla sicurezza nazionale voluta dal PCC ed adottata in violazione della Basic Law stipulata tra UK e Cina nel 1997, all’atto del passaggio della ex colonia alla Cina. Di più, il Primo Ministro Boris Johnson intende lanciare durante la presidenza britannica del G7 un nuovo forum multilaterale esteso ad Australia, Corea del Sud ed India per formare un D10 delle democrazie industrializzate, che crea di fatto una cintura di sicurezza in Asia attorno alla Cina.
Con le sue parole, Xi ha marcato l’inizio dell’escalation a tutto campo nelle relazioni con l’Occidente, che coinvolge oltre a democrazia e diritti umani, la rivalità strategica, il commercio internazionale, il 5G, e le responsabilità sulla pandemia.
Poi, deposto il bastone, Xi è passato alla carota, affermando l’impegno di Pechino a ridurre le emissioni di carbonio del 65% entro il 2030 e raggiungere Net Zero entro il 2060 – impegni entrambi irrealistici, dato che la Cina emette un terzo dei gas serra del mondo.
Infine, tornando ai toni del 2017, quando si presentò come il campione del libero scambio globale, Xi ha anche chiesto una governance globale più forte attraverso le organizzazioni multilaterali, la rimozione delle barriere al commercio internazionale, agli investimenti e agli scambi tecnologici, e una più forte rappresentanza internazionale per i paesi in via di sviluppo, che, fatti oggetto di un’offensiva di investimenti predatori, costituiscono uno dei pilastri per il progetto di egemonia geopolitica del PCC.
Xi si è presentato come il leader indiscutibile di una super potenza economica, che – secondo i dati ufficiali – ha visto il suo PIL aumentare del 2,3% unica grande economia ad essere cresciuta nell’anno devastato dalla pandemia di coronavirus, puntando forte sulla efficace gestione dell’emergenza sanitaria da parte del suo paese. Ma il governo cinese è stato direttamente accusato di aver nascosto il focolaio iniziale di Covid-19 e di aver coperto le informazioni sulla infettività e mortalità del virus, mentre solo ora l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha aperto un’indagine sul laboratorio di Wuhan a lungo ritardata per le pressioni esercitate da Pechino verso l’organizzazione.
Tutta l’aggressività di Xi non è stata sufficiente a nascondere i timori della leadership di Pechino: le sanzioni, che “creano isolamento”; e l’accorciamento delle supply chain attraverso il re-shoring delle produzioni esternalizzate in Cina.
E sono proprio questi gli strumenti da cui Biden si appresta a ripartire per gestire la singola priorità più impegnativa dell’agenda Usa appena riformulata.
(Foto: Ministry of Foreign Affairs of the People’s Republic of China)